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INTERVISTA A GIANCARLO NARCISO

Da Tokyo, Kuwait City, San Francisco, Città del Messico e Singapore
Giancarlo Narciso, è conosciuto dai molti amanti del “giallo” anche con lo pseudonimo di Jack Morisco autore dei coinvolgenti romanzi di spionaggio nella collana “Segretissimo”. Appassionato dell’Oriente ha girato tutto il mondo, da Tokyo, Kuwait City, San Francisco, Città del Messico e Singapore. Vive attualmente tra Riva del Garda e l’isola di Lombok, in Indonesia. Nel 1998 vince il Premio Tedeschi con il romanzo “Singapore Sling” e nel 2006 il Premio Scerbanenco con il romanzo “Incontro a Daunanda”. Tra i suoi altri successi “Sankhara”, “Le zanzare di Zanzibar” e “Perdisa Pop (Un’ombra anche tu come me)”. Come Giancarlo Narciso ha pubblicato “Solo Fango”, coinvolgente reportage noir sull’ecomafia in Trentino
.

Come sei arrivato alla scrittura, in modo innato e inevitabile o casualmente?
«Non casualmente. A scuola l’unica materia in cui andavo bene, oltre a ginnastica e condotta, era Italiano scritto. All’inizio volevo fare il giornalista. Mi ero accorto di una cosa: ero molto bravo a convincere le persone, soprattutto quando scrivevo. Sempre con l’idea di viaggiare, cosa che poi ho realizzato seriamente, perdendomi in viaggi di tre o quattro mesi, senza il biglietto di ritorno in tasca. Viaggiando in questo ambiente variegato e multietnico, incontravo artisti, pittori, scultori e musicisti. E la domanda di rito era: “Tu cosa fai?  - “Io scrivo” -“Cosa?”. “Bé, per adesso niente, ma voglio scrivere un romanzo”. E come si chiama? Lì per lì mi venne in mente questo titolo “Le zanzare di Zanzibar”. Ho viaggiato con questo titolo in tasca per anni e non ho mai scritto niente, impegnato com’ero in altre cose. Ho iniziato a scrivere le prime righe nell’87, quando è nato mio figlio e avevo trentanove anni. Nel giro di una settimana avevo già cinquanta pagine. Poi non l’ho più preso in mano e l’ho finito due anni dopo in sei, sette mesi. Da lì ho capito che avrei fatto lo scrittore».
Da lì poi ti è arrivata l’ispirazione?
«Dopo il primo, in sette, otto anni ho scritto altri tre romanzi, che in realtà sono pochi. Uno scrittore dovrebbe fare almeno un romanzo l’anno».

Dipende anche dal tipo di romanzo forse?
«Certo, per i romanzi che sto scrivendo adesso mi bastano tre mesi, se voglio scrivere qualcosa di particolarmente intrigante, ci impiego senz’altro di più».

Che tipo di letteratura ti piace? So che ami Chandler...
«Sono affascinato dalla storia, dal duello che si crea tra lo scrittore e il lettore, come se gli dicesse: “vediamo se riesco a essere così complicato da intrigarti, ma non da scoraggiarti. Per me è importante la trama e la costruzione del personaggio. Chandler invece mi ha affascinato per come scrive, per questa sua capacità evocativa, malinconica, nostalgica e amara. Se  ci fai caso, le trame di Chandler sono spesso incomprensibili. E non era un autore prolifico, ha scritto circa sette romanzi, molti dei quali erano racconti cuciti insieme. Il romanzo che ho amato di più è  “Il lungo addio”. L’ho letto in tre lingue, varie volte e ne ho voluto fare un remake con “Singapore Sling”, con un personaggio italiano e uno spostamento temporale negli anni ’80. Ho cercato di riprodurre quell’atmosfera un po’ dilatata, per cui aspetti sempre che succeda qualcosa».

Secondo te noi italiani siamo in grado di riprodurre storie di questo tipo al cinema? Negli ultimi anni si è fatta strada la cinematografia orientale, penso per esempio al recente “Vendicami” di Johnnie To.
«In Italia di registi orientali conosciamo solo John Woo e in effetti il suo “Face off” è un capolavoro. Il problema è che in Italia non abbiamo cinematografia. Se ci fossero le troupes dei cosiddetti film di serie B di venticinque anni fa, certo che saremmo in grado di fare questo tipo di film».

Ma il fatto che tu ambienti i tuoi romanzi in Oriente si lega alla tua ricerca di una realtà più stimolante?
«Per me l’esotico è molto importante. Io sono cresciuto leggendo romanzi e guardando film, scappando dalla vita milanese. I film italiani di Monicelli o De Sica rappresentavano le difficoltà dell’Italia in cui vivevo. Quelli americani invece evocavano realtà e personaggi esotici, come i cacciatori di smeraldi, l’India, i pirati, la legione straniera, l’Africa. Poi c’erano i film di James Bond, che andava sempre in missione in posti come Hong Kong, le Bahamas o la Giamaica. Morale della favola: per me avventura ed esotico erano sinonimi. Crescendo, inconsciamente, devo aver pensato che per sfuggire alla vita quotidiana, sarei dovuto andare in paesi esotici e, automaticamente, mi sarei trovato in un film. E in effetti, me ne sono capitate di cose avventurose. Un film che mi ha colpito moltissimo è “Vite vendute (“Le salaire de la peur” -  1953) di Clouzot, dove si narra di alcune persone perdute in America Centrale che non possono tornare a casa perché non hanno i soldi. In realtà non vogliono tornare, perché non sanno cosa possono trovare, ma sono sempre alla ricerca dell’espediente per accumulare soldi per il ritorno. Mi ero innamorato di questi personaggi e  quando ho iniziato a scrivere, fatalmente, le mie storie erano ambientate lì. In Italia ho ambientato solo due romanzi, con Buck Moroni, che però non hanno la stessa carica emotiva degli altri».

Jack Morisco, il tuo pseudonimo per la serie sulla spia Banshee,  è il nome di un personaggio di Tex, un egiziano trapiantato. Ti sei ispirato a lui?
«No, Tex non c’entra. La mia fidanzata era bionda e io moro, così da moro iniziò a chiamarmi Morisco. Però Tex mi piace, l’ho letto da adulto, mentre da bambino leggevo Nembo Kid, il Superman di una volta».

Quindi lo pseudonimo di Jack Morisco nasce per una scelta narrativa ben precisa?
«Non è stato consapevole. Io ho sempre scritto storie ambientate all’estero, finché c’è stato il progetto di fare una serie di “medical thriller”. Progetto che poi è naufragato, ma a quel punto avevo già scritto quasi tutto “Sankhala”, pubblicato da Fazi e ambientato in Trentino, dove abitavo. É stato l’unico romanzo ambientato in Italia fino all’ultimo, “Solo fango”. Lo pseudonimo Jack Morisco nasce per caso, nel 2002, quando Sandrone Dazieri, all’epoca direttore della collana “Segretissimo” (Mondadori), mi propone una serie di spionaggio. Dovevo trovarmi uno pseudonimo francese o anglosassone. Mi sono inventato uno personaggio sangue misto, mezzo francese e mezzo scozzese, così come il protagonista. Il primo romanzo era in puro stile James Bond, poi ho fatto storie più radicate sul posto, dato che mi sono sempre documentato molto sulla situazione geo-politica asiatica. Ha cominciato a piacermi e ora vorrei fare cose simili sull’Italia, come Narciso. Anche perché all’estero da uno scrittore italiano ci si aspettano storie italiane. Il tedesco che compra un libro di uno scrittore italiano vuole cogliere l’idea che si è fatto dell’Italia, non dico spaghetti, pizza e mafia, ma quasi».

In “Solo Fango” hai indagato su un fatto di cronaca del Trentino di venticinque anni fa. Pensi che la strada per scrivere dell’Italia  sia proprio quella di ripercorrere fatti di cronaca controversi più o meno recenti della nostra storia?
«Questo è un filone che voglio proseguire anche con le storie di spionaggio. Innanzitutto risveglia la mia vena polemica. Detesto quello che sta storico medioevale e la sua serie su Mondino de’ Liuzzi, protagonista di “Cuore di ferro”. Andrea Carlo Cappi, che ha l’unico difetto di essere troppo prolifico e di fare troppe cose. La critica e gli editori non riescono a dargli un etichetta ed è difficile da commercializzare. Però è bravo e potrebbe fare qualsiasi cosa».

Ti piacerebbe dimostrare alla critica che sei uno autore completo, scrivendo un genere completamente diverso dal tuo?
«In realtà di gialli ne ho scritto uno, che è “Sankhara” e ho scritto diverse storie d’amore. Intendi qualcosa senza pistole? Vorrei scrivere la storia di una vita di un uomo, dall’adolescenza alla vecchiaia. Prima o poi lo farò, mi spaventa solo l’idea di scrivere una sola cosa per un anno o due. Per rispondere alla tua domanda, mi piacerebbe essere ricco e famoso e preferirei essere apprezzato dal pubblico, più che dalla critica. Perché, in realtà, i critici che seguono il noir hanno scritto cose che mi hanno fatto molto piacere. Se poi la critica ritiene ancora che esistano romanzi “mainstream” e romanzi di genere…»

Ma la cosa più bella che hanno detto di te?
«É una cosa riferita alla mia ex moglie a proposito del mio primo romanzo “Le zanzare di Zanzibar”. Questa persona ha detto: “Ero in ospedale e anche se non avevo nulla di grave non riuscivo a trovare la forza di uscirne. L’ho trovata leggendo il romanzo di Giancarlo”. Credo di non aver ricevuto complimento più bello, anche, perché ha capito esattamente che il mio romanzo parlava della bellezza di vivere».

 

(Intervista di Isabella Rotti)               

 

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